Sembra che in Italia il farmaco da anni maggiormente consumato sia il Tavor. Non si tratta di una sostanza utile per curare un disturbo fisico, ma piuttosto di un tranquillante chimicamente denominato Lorazepam.
Entro 15 minuti circa, ogni tranquillante come il Tavor riduce, in modo evidente il disagio, rilassa piacevolmente la muscolatura, rende calmi, anche se un po’ più stanchi e meno concentrati. Sono quindi di aiuto per i sintomi fisici della ansia, come accelerazione cardiaca (batticuore), testa pesante, dolorabilità toracica, disturbi intestinali, tremori, sudorazione e senso di vertigine. L’effetto dura circa 6-8 ore. Il Tavor se assunto in dosi più elevate favorisce il sonno.
Le situazioni in cui più frequentemente i tranquillanti vengono prescritti, sono quelle in cui la persona vive momenti di disagio psichico minore. In questi casi chi ne fa uso, dovrebbe sapere a che cosa va incontro ed occorre pertanto che acquisisca delle informazioni pratiche ed oggettive, onde evitare dubbi che possono tradursi in panico. Il Tavor ad esempio, se assunto in dosi elevate, può bloccare il riflesso che attiva la respirazione e dopo un uso prolungato (mesi o anni) condurre all’assuefazione o peggio alla dipendenza.
Per assuefazione si intende l’ assunzione quotidiana di una quantità tale da essere metabolizzata bene dal fegato, che è un organo di trasformazione. Se una compressa da 2,5 mg di Lorazepam viene utilizzata per favorire il sonno, si deve ricordare che non può essere assunta per più di due settimane di seguito. Oltre questo periodo se si tralascia di assumere questa compressa, si può percepire un’insonnia grave e fastidiosa da astinenza, mentre un suo uso regolare ed in dose moderata di questo tranquillante non danneggia l’organismo.
La dipendenza è qualcosa di diverso: l’ effetto del Lorazepam sul sonno infatti si attenua con il tempo. Pazienti curiosi, ma superficiali, scoprono che con due pastiglie dormono ancora meglio, tuttavia dopo alcune settimane o mesi ne devono prendere tre ecc., fino a quando arrivano a procurarsi da soli dei danni organici, conseguenti ad una tenace e devastante dipendenza da un preparato divenuto dannoso. Circa il 5% dei pazienti che fanno uso di Tavor, ne diventa dipendente, cioè uno su venti. Ne consegue un certo rischio, ma non elevato al punto da impedirne l’assunzione.
La miglior protezione dalla dipendenza è il timore di diventare dipendente da parte di chi soffre di disturbi d’ansia. Il paziente sta quindi attento, quasi sempre, a non esagerare.
La maggior parte di chi fa uso di tranquillanti, si preoccupa del fatto che il metabolismo del nostro cervello, un organo delicato e sensibile, possa esserne influenzato chimicamente. Al contrario, le attese di altre persone vanno nella direzione opposta, ritenendo che la felicità (benessere) possa essere conseguita e mantenuta anche chimicamente. Infatti tutti gli psicofarmaci innescano sovente gli effetti desiderati e quasi del tutto prevedibili, per coloro che conoscono il funzionamento dei neurotrasmettitori cerebrali.
I neurotrasmettitori trasferiscono a livello biochimico da un neurone all’altro tramite le sinapsi dei segnali: quando il neurotrasmettitore serotonina è poco attivo, ne consegue una profonda insoddisfazione nei pazienti, che a volte essendo poco attenti a se stessi ed alla loro sicurezza, percepiscono la loro situazione come sostanzialmente negativa. Quando, al contrario, è il neurotrasmettitore noradrenalina ad essere poco attivo, diminuiscono nel soggetto resistenza e tenacia. La depressione, male del secolo, è caratterizzata anche dalla scarsa attività di entrambi questi neurotrasmettitori, ma non solo. Ne consegue che i pazienti hanno una visione negativa di se stessi, del mondo intero e del loro futuro. Manca loro l’energia e lo slancio vitale per dominare e superare questa situazione. Essa però può essere modificata biochimicamente e curata fino alla guarigione, ottenendo un nuovo equilibrio affettivo. È doveroso sottolineare tuttavia che nel 50% dei casi la depressione può ricomparire negli anni successivi (si parla in questo caso di depressione ricorrente). Non si deve dimenticare che nel 10% dei casi si possono verificare degli episodi maniacali, che sono l’esatto contrario della depressione, anche dal punto di vista biochimico per un eccesso di noradrenalina in circolo.
Gli antidepressivi nulla hanno in comune con i tranquillanti (come il Tavor od il Valium ) perché non agiscono, come questi ultimi, entro pochi minuti.
Le sostanze che modificano in modo estremamente veloce il metabolismo cerebrale rilasciano un segnale di intensità tale da innescare potenzialmente e pericolosamente una dipendenza. La nicotina assorbita direttamente in bocca o dalle mucose, impiega circa 7 secondi per raggiungere il cervello e precisamente i recettori per l’ adenosina. Si tratta di un piacere molto pericoloso, perché porta alla dipendenza: già al secondo “tiro” il fumatore percepisce il cambiamento fisico attivato dal primo. Questo meccanismo è così veloce che solo i raggi solari e l’elettricità lo sono maggiormente.
Gli antidepressivi modificano gradualmente ed in modo persistente il metabolismo cerebrale. Servono 2 -3 settimane per ottenere un aumento di serotonina, ma anche di dopamina o di noradrenalina nel cervello secondo l’ipotesi sulla base biologica monoaminergica della depressione di Skillkraut, ora superata a seguito di nuove conoscenze.
L’effetto dipendenza non si verifica quasi mai, se il farmaco antidepressivo non viene assunto per molti anni, anzi può succedere che agisca in modo mirato sulla parte debole della personalità, rafforzandola.
La prima vera liberazione di energia si avverte all’incirca dopo 10 giorni di terapia, mentre nei 3-5 giorni che seguono il paziente percepisce di essere più attivo ed efficiente mentalmente, provando sensazioni positive e riprendendo a sorridere.
Passati altri 3-5 giorni, il paziente riferisce di un maggior distacco dai propri problemi, premessa per una conseguente miglior capacità di risolvere gli stessi. Benché essi rimangano tali e quali, interviene una modificazione dell’atteggiamento nei loro confronti del soggetto, il quale in questa fase può avvertire anche una migliore qualità del sonno, un aumento dell’appetito ed una minore sensibilità verso la sofferenza.
La depressione non curata dura in media da 6 a 9 mesi. Comprensibilmente, nella maggior parte dei casi, un trattamento con gli antidepressivi deve protrarsi altrettanto, perché ne allevia i disturbi . Bisogna verificare accuratamente la buona tolleranza verso il farmaco prescritto, che non può diventare altrimenti solo un buon sostegno per il tempo necessario. Non va sottovalutato che nel corso di uno stato depressivo maggiore oltre alla flessione dell’umore si manifesta sempre un deficit cognitivo. Attualmente questo importante disturbo viene efficacemente curato dalla Vortioxetina, nuovo preparato di sintesi danese che supera l’ipotesi sulla base biologica monoaminergica come causa della depressione in quanto vengono coinvolti altri neurotrasmettitori come il gaba ed il glutammato che agiscono efficacemente sul deficit cognitivo, presente soprattutto nei pazienti anziani che ne traggono un insperato beneficio a conferma che le conoscenze sono sempre in progress.
Le ricerche hanno evidenziato che negli antidepressivi non mancano effetti collaterali indesiderati, come un aumento di peso, stanchezza, abbassamento della pressione, problemi sessuali.
I moderni antidepressivi, fortunatamente, hanno meno effetti collaterali dei triciclici, rimasti tuttora insuperati per efficacia.
Con un po’ di pazienza e disponibilità i pazienti, in cura se possibile con lo stesso specialista, per garantire la continuità terapeutica, possono comprendere quale preparato antidepressivo, si adatti meglio al proprio caso, ottenendo in questo modo benefici come il dimagrimento, un aumento della pressione sanguigna, un miglioramento dell’ attività sessuale, non dimenticando di osservare una dieta ipocalorica e di mantenere una attività fisica in alternativa alla sedentarietà da sconsigliare fermamente. Tuttavia nei casi non trattati esiste il rischio della cronicità, denominato anche zoccolo duro della resistenza ai trattamenti nella misura del 30% dei pazienti depressi.
Un terzo gruppo di farmaci è rappresentato dagli antipsicotici, prescritti con minore frequenza. Questi preparati agiscono sulla mania nel disturbo bipolare dell’umore, sulla schizofrenia, sulla produzione delirante dovuta alla demenza senile e sul discontrollo comportamentale da stupefacenti.
La loro funzione è quella di controllare l’ eccesso del neurotrasmettitore dopamina nel cervello. Questa sostanza rende le persone attive, curiose ed alquanto spavalde. Un tasso elevato di dopamina provoca lo sdoppiamento della realtà, causa allucinazioni (si sentono voci, si vedono forme, si avvertono contatti corporei, odori, sapori ecc. che in realtà non esistono) ed illusioni (la certezza di essere amati, senza esserlo, seguiti, osservati, esclusi, cercati ecc.). Pur trattandosi di puri fenomeni immaginativi, le persone colpite da questi disturbi sono talmente convinte della loro realtà da non accettare di essere contraddette. I farmaci antipsicotici esercitano un buon effetto su quest’anomalia percettiva, ma i pazienti non vedono nessun buon motivo per assumerli e bisogna pertanto convincerli, insistere e controllarli adeguatamente, con un impegno educativo ed emotivo tutt’altro che trascurabile (da parte di medici e familiari), oltre ad una forte motivazione etica. Non mancano pesanti effetti collaterali dovuti a tali farmaci, che influiscono sulla mobilità (crampi, tremori, andatura a piccoli passi, incapacità di stare seduti o fermi), e provocano un aumento di peso, stanchezza ed eventuali disturbi della sessualità.
L’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), per far fronte a questi inconvenienti, dopo una prima psicosi schizofrenica trattata, propone uno o due anni di protezione farmacologica ed è pertanto utile trovare un “farmaco di mantenimento” che possibilmente risulti accettabile per lungo tempo. Molti pazienti non hanno consapevolezza della loro malattia e rifiutano categoricamente i farmaci. In questo caso sarebbe utile trovare un preparato, oppure una combinazione di farmaci, in grado di non avere troppi effetti collaterali. La loro totale assenza può far insospettire il curante che deve valutare se i farmaci vengano correttamente assunti piuttosto che presi diversamente da quanto prescritto o non assunti del tutto (questo vale per i 2/3 di tutti i pazienti schizofrenici). Comunque una alternativa esiste per quei pazienti che accettano di curarsi pur essendo poco inclini all’osservanza terapeutica. In questi casi è preferibile ricorrere ai preparati long-acting (a lunga azione) che vengono iniettati intramuscolo ogni 20 o 30 giorni a seconda del preparato.
Un’ultima classe di farmaci va sotto il nome di stabilizzatori dell’umore. Essi vengono impiegati quando insorge il disturbo bipolare o psicosi maniaco-depressiva, come veniva definita in passato e che riguarda il 3% della popolazione.
Gli stabilizzatori dell’umore sono dei preparati che richiedono tempo per avere effetto sul paziente. Il più importante stabilizzatore dell’umore è il litio, i cui sali presenti in natura, non potevano essere prescritti a causa dei gravi effetti collaterali fino a quando nel 1970 il danese Mogen Schou è riuscito ha trovare il metodo per dosarlo nel sangue. Da quella data è cambiata la vita della maggior parte dei pazienti che soffrono del disturbo bipolare dell’umore favorendo indirettamente la chiusura degli ospedali psichiatrici provinciali in quanto molti di loro dovevano essere rinchiusi per tutto il tempo in cui durava la sintomatologia maniacale franca. I sali di litio non possono essere usati per tutta la durata della malattia, che notoriamente continua per tutta la vita, perché dopo 25 anni circa compare un’ insufficienza renale da non trascurare. I pazienti bipolari vanno incontro continuamente a lunghi episodi depressivi ed a brevi, ma intensi episodi maniacali, che col tempo distruggono la loro vita, senza dimenticare che esiste anche la mania come unica polarità. I sali di litio attenuano ed abbreviano la mania e nel 70% dei casi hanno un’efficacia preventiva, diminuendone del 50% la frequenza, l’ intensità nonché la durata degli episodi stessi. Tutto questo permette che si riduca di circa un ottavo il problema della convivenza con la malattia. In questi casi i sali di litio vanno somministrati al paziente per anni o addirittura per un paio di decenni, o poco più, senza creare dipendenza. Tuttavia anche il litio può avere effetti collaterali sulla tiroide anche nel breve termine, perché questa ghiandola endocrina lo scambia per iodio, lo utilizza come tale compromettendo la funzionalità della ghiandola stessa. Inoltre, essendo il litio un sale, quando viene eliminato come ione litio può danneggiare la funzionalità renale nel lungo periodo, non dimenticando che la sua eliminazione può venire anche attraverso il sudore e pertanto il suo tasso ematico, può variare a seconda delle stagioni (estiva o invernale). Si deve ricordare che il litio, se assunto tre volte oltre la dose massima consentita, può provocare pericolosi effetti tossici. Ne consegue che vanno tenuti sotto controllo periodico sia il tasso ematico del litio, che la funzionalità renale e tiroidea.
A questo punto ci si chiede, come mai si impieghino nel trattamento della depressione delle sostanze tanto complesse. La risposta sta nei benefici terapeutici che si riscontrano, con un grande margine di sicurezza riducendo anche notevolmente l’elevato rischio di suicidio, che si manifesta passando dalla fase depressiva a quella maniacale e viceversa. Tutte queste conoscenze hanno messo in luce come le malattie mentali, con l’aiuto di questi farmaci, possano essere curate in modo più veloce e duraturo rispetto a 60 anni fa. Le persone affette da malattia psichica possono trarne giovamento e condurre una vita del tutto normale, protette dalla tentazione suicidaria dovuta alla disperazione. In alternativa ai sali di litio, non tollerati da tutti i pazienti si ricorre all’impiego degli antiepilettici della seconda generazione, un paio dei quali sono anche dosabili nel sangue come l’acido valproico e la carbamazepina.
Per concludere, risulta fondamentale che l’impiego degli psicofarmaci vada riservato alla competenza degli specialisti in psichiatria, mentre neurologi, internisti e medici di medicina generale nella maggior parte dei casi non hanno le conoscenze necessarie, se non si aggiornano. Da rammentare che l’uso degli psicofarmaci deve sempre basarsi su un rapporto di sostegno e di fiducia tra il curante ed il paziente, che richiede una precisa formazione. Non si deve mai escludere la famiglia del paziente dalla necessaria informazione e collaborazione, come dire che il medico deve agire con molto tatto, oltreché con empatia,< nonché con scienza e coscienza.
Franco Zarattini